Dalla settima conferenza di "Vita
spirituale del presente ed educazione" di Rudolf Steiner:
" I materialisti sorvolano con
facilità sulle cose, ma avendo il senso per una reale osservazione del bambino
si vede come tra i nove e i dieci anni si verifichi in ogni singolo qualcosa di
strano. Il bambino diventa esteriormente un po’ irrequieto. Non è a suo agio
col mondo esterno. Sente qualcosa, come se dovesse diventare timido. Si ritira
un po’ dal mondo esterno. Il fatto accade in modo intimo e sottile a quasi
tutti i bambini. Il bambino a cui non accade non è normale. Dobbiamo osservare
questo fenomeno, poiché nel sentimento del bambino sorge una domanda
straordinariamente importante fra i nove e i dieci anni. Egli non potrebbe
trasformare tale domanda in concetti, non potrebbe esprimerla in parole. Tutto
è sentimento: tanto più forte è il sentimento, tanto più intensamente se ne
deve tener conto. Che cosa vuol dire il bambino a quell’ età? Fino a quel momento egli ha rispettato l’educatore, il
maestro, seguendo una forza naturale. Ora egli sente che il maestro deve
mostrargli in qualche modo di esser degno di rispetto. Il bambino diventa
incerto, ed è necessario che proprio allora, osservando il fenomeno, il maestro
ne tenga conto nel suo comportamento. Per mezzo di qualcosa che non occorre
affatto sia qualcosa di escogitato, ma mediante una particolare espressione di
amore nelle nostre azioni, con un modo particolare di tener conto del bambino,
di confortarlo, avvicinandoci a lui in modo particolare in quello speciale
momento, in modo che il bambino si accorga che il maestro gli vuole
specialmente bene e gli muove incontro, possiamo condurre il bambino fra i nove
e i dieci anni, purché siamo attenti e ci comportiamo in maniera adeguata a superare
lo scoglio. E’ di grandissima importanza per tutta la sua vita futura che
glielo facciamo superare, poiché tutta l’insicurezza che rimane nel bambino è
insicurezza per tutto il resto della sua vita, anche se non se ne accorge; per
il fatto che s’imprime nel suo carattere, nel suo temperamento, nella sua
salute fisico-corporea , quella insicurezza viene più tardi a manifestarsi.”.
A nove anni, dice Steiner, “E’ come se
il bambino si destasse, incominciasse ad avere un rapporto particolare col suo
io. A tale età, intorno ai nove anni,
dobbiamo stare attenti al bambino. In realtà dobbiamo stare attenti fin
dall’inizio. Al giorno d’oggi può accadere con facilità che il bambino mostri
tali impulsi già abbastanza presto. Dobbiamo badare a come il bambino giunge
interiormente a meravigliarsi. Incomincia a meravigliarsi di tutto, ha un nuovo
rapporto con tutto. Nei bambini normali questo accade tra i 9 e i 10 anni. Se
ora ci chiediamo, riflettendo interiormente: che cosa gli è accaduto in realtà?
Abbiamo una risposta che non si può formulare esattamente con le parole del
linguaggio odierno, ma che si può esprimere all’incirca così: fino ad ora,
quando gli si poneva davanti uno specchio ed egli vedeva il proprio viso, il
bambino lo guardava un po’ diversamente da come guarda gli oggetti esterni, ma
senza alcuna impressione particolare.
….
Quando sui nove anni e mezzo si guarda
nello specchio, il suo specchiarsi è qualcosa che suscita impressioni durevoli,
che in un certo modo influisce sul suo carattere.”.
Steiner qui poi si sofferma a parlare
come nel nostro tempo, “un’epoca in cui si vuole ridurre la pedagogia a scienza
sperimentale, perché si è perduta ogni interiorità”, se si volesse tentare
anche questo esperimento, ciò si vedrebbe. Si terrebbe “sempre uno specchio davanti ai
bambini in questo periodo...-e si registrerebbe su di un pezzo di carta “quali
speciali stadi di sviluppo” l’esperimento presenti, “ per poterli inserire in
un libro e trarne un capitolo di pedagogia sperimentale. E mette
in evidenza come, di fatto, la pedagogia sperimentale sperimenti non sulla vita
ma sul cadavere, come essa tragga “motivo di esperimentato proprio da quello
che si dovrebbe abolire”.
“ Ciò che rende tanto dannosa la
presente civiltà è che essa dappertutto vuole scoprire che cosa accade ai
cadaveri, invece di sforzarsi di osservare come vanno le cose nella vita, come
in realtà il bambino sottilmente e delicatamente giunge a una specie di
meraviglia davanti a tutto quello che accade nel mondo perché comincia a
vedervisi inserito. Solo a questo stadio della vita si giunge alla coscienza
dell’io. Quando si vede la vita splenderci incontro dappertutto, quando si
comincia a sentire e a percepire nel mondo vegetale e animale, allora si sa
qualcosa di se stessi; questo comincia a destarsi nel bambino tra i nove e i
dieci anni. Non comincia però a destarsi se gli si impedisce di giungere al
punto di esprimere il significato nel proprio movimento, di metterlo in azione
immaginativamente. Questo al giorno d’oggi non accade, oggi non si educa in
modo che il bambino compia qualcosa di significativo. Viene portato in palestra
come un povero agnellino al pascolo e istruito, comandato per bene su come deve
muovere le braccia, come deve comportarsi con i vari attrezzi. In ciò non vi è
niente di molto spirituale; o si nota forse che in queste cose si faccia alcunché
di particolarmente spirituale? Certo, si parla molto bene di queste cose, ma
esse non sono compenetrate di spirito.
Che cosa ne risulta? Ne risulta che al
bambino, nell’età in cui si può infondere in lui nel modo migliore il senso del
bello, questo non gli viene infuso. Il bambino sarebbe lieto di sentire
meraviglia, ma tale capacità è stata uccisa. Prendiamo un programma di studio
oggi in uso, osserviamo le sue tendenze: esse consistono nel trattare il
bambino in modo che, quando a 6, 7 anni viene condotto a scuola, resti ottuso
per l’esperienza che dovrà avere tra i 9 e i 10 anni. Non la vive
assolutamente, e per non essere vissuta essa entra nella corporeità invece che
nella coscienza. Se ciò che deve risiedere nella coscienza risiede nella
corporeità, la conseguenza è che rumoreggia nel profondo, che si trasforma in
sentimenti, in istinti; la gente ha poi sentimenti ed istinti e non ne sa
nulla. Così erra nella vita e non vi trova più nulla. Una caratteristica del
nostro tempo è che gli uomini non trovano niente nella vita, perché da bambini
non hanno imparato a trovarla bella. Vorrebbero trovare dappertutto solo quello
che nel senso più arido arricchisce in qualche modo la conoscenza, ma non
trovano ovunque la nascosta, misteriosa bellezza; così il nesso con la vita
muore del tutto. L’andamento della civiltà è tale che muore il nesso dell’uomo
con la natura. Quando si sia compenetrati del fenomeno, quando sia stato
osservato, si sa che è importante trovare la parola adatta, che il bambino
intorno ai 9 anni attende qualcosa di cui si possa meravigliare. Se questo non
viene fatto, si causano danni enormi. Si deve proprio imparare ad osservare il
bambino. Si deve crescere col sentimento nel bambino. Si deve crescere col
sentimento nel bambino stesso, si deve stare in lui e non fare esperimenti
esteriori fuori di lui.
In realtà ci si deve dire che il bambino
si sviluppa nella vita percorrendo n certo cammino dal momento in cui da una
zona profonda affiora in certo qual modo dal linguaggio: tu sei un io. Ciò appare
nel bambino relativamente presto, quando comincia, quando impara a dire “io” a
se stesso; si presenta in modo sognante e continua a vivere come in sogno. Poi
il bambino viene condotto a scuola, e noi dobbiamo trasformare tutto questo,
perché egli vuole prendere un’altra direzione . Dobbiamo indirizzarlo
all’attività artistica. Quando per un certo periodo abbiamo lavorato così col
bambino, egli fa il camino a ritroso, passa di nuovo per il momento della vita
in cui ha imparato a dire “io” a se stesso; poi continua nel suo cammino e più
tardi, giunto alla pubertà, torna di nuovo a quel punto. Noi prepariamo questo
momento, se nel periodo tra i 9 e i 10 anni portiamo il bambino a meravigliarsi
del mondo, ad ammirarlo. Se rendiamo più cosciente il suo senso del bello, lo
prepariamo in modo che, giunto alla pubertà, impari ad amare giustamente il
mondo e a sviluppare giustamente l’amore per il mondo. “.
Da pag. 119 a pag.123 di “Insegnamento e
conoscenza dell’uomo”, ottava conferenza, Stoccarda, 19 giugno 1921, Edizione
Antroposofica, Milano 1986
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Il processo
d’identificazione di sé che si configura in modo più netto intorno ai nove anni
e che Steiner ha definito il passaggio del Rubicone segna il passaggio
irreversibile tra la prima infanzia, in cui il bambino viveva ancora in uno
stato di simbiosi con il mondo circostante, - con gli elementi, con gli esseri
tutti del creato, con i suoi educatori, genitori e maestri… - e la nuova
condizione, quella di “essere autonomo”, dotato di un Io individuale che ora
comincia a guardare se stesso, il mondo e gli esseri per conseguirne la
conoscenza e per imparare a dirigere i propri passi in modo conforme al proprio
destino.
Il bambino ora non si abbandona più
all’ambiente in modo assoluto, ma riconoscendosi come un essere indipendente,
sa di non essere più una cosa sola con l’ambiente circostante ma di dover
cominciare a sviluppare le proprie forze vitali in accordo e in armonia con la
natura e
gli esseri tutti.
Questo momento di “liberazione”, che alcuni
hanno voluto paragonare alla metamorfosi della farfalla dalla crisalide e che
possiamo considerare come una seconda nascita, una nascita come quella che ha
liberato fisicamente il bambino dalla madre e che ora lo svincola dall’unione
simbiotica col mondo, è un momento in cui il bambino entra in uno stato di
crisi, di conflitto nei confronti degli adulti e di se stesso. L’amore, la
comprensione e la fermezza serena e fiduciosa dell’adulto gli sono
indispensabile aiuto e guida.
Questo momento
presenta caratteri suoi propri e comportamenti che sono manifestazioni del
momento di trasformazione che il bambino attraversa, dei dubbi, delle domande,
delle aspettative che vi si connettono.
Certo, a molti non sarà rimasto
inosservato il fatto che alcuni bambini al di sotto dei sette anni, ad esempio,
hanno paura del buio o che, sempre intorno a questa età, altri abbiano
difficoltà di orientamento spazio-temporale, o che in tutti i bambini di questa
età prevalga sia lo spontaneo affidarsi all'adulto sia il passo e il movimento
leggero, come se il piccolo non calpestasse nemmeno la terra su cui poggia i
suoi piedi. Tutti comportamenti questi che dopo i nove anni, tra i nove e i
dieci, vengono generalmente superati.
Prima dei nove anni il bambino, a casa trova
grande conforto dalle braccia dei suoi cari, a scuola desidera esser tenuto per
mano dal maestro, persino esser preso in braccio a volte, e sempre, in ogni
occasione, vuole imitare ciò che l'adulto fa davanti a suoi occhi. Vuole
imitare ad usare gli strumenti che vede usare agli adulti, vorrebbe essere
bravo a fare ogni cosa che fa e come fa ciascun adulto con il quale entra in
contatto.
Si affida all'adulto come si affida al
mondo che lo circonda, s'immerge, mediante la fiducia che nutre spontanea nei
confronti dell'adulto, in ciò in cui è immerso dall'adulto stesso e lo fa
perché è l'adulto che lo conduce, l'adulto per cui egli nutre incondizionata
fiducia.
Fino a questo periodo della vita umana
l'istinto d'imitazione è molto forte nel bambino ed egli riesce infatti a fare
con estrema naturalezza molte cose. Non a torto il suo spiccato senso
dell'imitazione ha indotto molte scuole di pensiero ad adottare metodi di
precoce allenamento del bambino ora in questo ora in quell'altro settore,
scuole che, sebbene si rivelino positive in alcuni campi, in altri, non
ponendosi il problema di cosa è bene o non è bene per il bambino piccolo né
degli effetti postumi delle attività in cui lo si introduce, con la loro
spiccata tendenza sia verso la precocità che verso una visione puramente fisica
del bambino, e dunque di tipo quasi esclusivamente materialistico, finiscono
per determinarsi, di fatto, assai pericolose e nocive: ma questa digressione
potremo approfondirla in un'altra occasione.
Il bambino, dunque, sorretto fino a
questo momento dalla forza dell'istinto di imitazione, in base alla quale
nutriva spontanea fiducia nell'adulto, ora che questa forza va esaurendosi, sia
pure gradatamente e, crescendo, un po' alla volta e lentamente egli deve
divenire individuo autonomo che dovrà interagire in responsabile scelta propria
col mondo circostante, comincia a
chiedersi chi sia egli stesso e avendo ormai chiara nella propria interiorità
il sentimento della propria entità autonoma dal resto del mondo, alza lo
sguardo a quell'adulto da cui fino a quel momento era dipeso e, come se lo
vedesse per la prima volta, il suo inconscio gli chiede: "Chi sei tu? Chi
sei tu che ti arroghi il diritto di darmi ordini? di educarmi?".
Ora lo vediamo cercare sempre di
svincolarsi persino dalle affettuosità dei familiari e cercare di evitare con
cura di avvicinarsi ai maestri, ora lo vediamo cercare ogni momento di
sottrarsi alle indicazioni della mamma, del papà, di altri adulti e
sgattaiolare rapido ed accorto lontano dai loro sguardi vigilanti.
Per chi, scevro da ogni desolato (nel
senso di assenza di qualcos'altro che non sia materia) materialismo, abbia un
sentimento della vita intensa che si svolge nelle regioni dell'anima umana, ma
sopratutto coltivi in sé la naturale certezza della realtà spirituale che ci
appartiene, non è difficile pensare che un bambino, essendo un essere da poco
disceso da un mondo prenatale, in cui è cresciuto alla "scuola di entità
spirituali", di esseri a lui superiori per evoluzione, nel momento in cui
comincia a rendersi conto che qui sulla terra sono gli uomini, esseri a lui
affini in quanto a grado evolutivo raggiunto, a doversi occupare della sua
educazione, a dover coprire il ruolo di suoi maestri durante questa prima parte
della sua vita terrestre, interiormente si chieda in nome di quale diritto , o
dovere, o l'uno e l'altro, quei dati esseri, si stiano occupando di lui.
La domanda inespressa con le parole, ma
espressa nell'insieme dei comportamenti di un bambino di nove anni , è : "
Chi sei tu, madre, chi sei tu padre, maestro ... che ti arroghi questo diritto?
Io sono un essere, un Io come te, perché tu devi educarmi, chi ti dà questo
questo diritto, chi ti ha investito di questo ruolo di mio educatore?".
Allora, veramente con profonda umiltà ma nel contempo con chiara fermezza,
l'adulto, anch'egli nella propria interiorità, dovrebbe poter rispondere:"
Dio me li ha dati. Diritto-dovere che mi dipendono direttamente dal mondo
spirituale; diritto-dovere, cui io, in tutta responsabilità permeata d'amore
corrispondo nel miglior modo possibile.".
Quanta sicurezza il bambino riceve
dall'adulto che ha chiaro in sé questo suo compito e lo esplica con
consapevolezza e tenace fermezza! Di quanto amore egli si sente colmato! Poiché
amare significa proprio fare ciò che è per il bene dell'amato. Il bambino sente
se gli ordini dell'adulto sono dettati dall'amore, un amore esente da qualunque
egoismo, riconosce chi sa guidarlo con saggio amore e dedizione.
Quante volte si vedono, ad esempio in
una scuola, allievi che accettano le direttive di alcuni insegnanti, sebbene
fermi e apparentemente severi e rifiutano invece quelle di altri, che pure
sembrano più "mobili" e chiedono molto meno!
Il bambino di nove anni che attraversa
il suo Rubicone guidato da un adulto sereno e consapevole, che non si lascia
impressionare dal suo "scalpitare" e dalle sue piccole e meno piccole
"provocazioni", ma che con lucida fermezza e tenace coerenza lo sa
fronteggiare senza far che venga meno la sua fiducia in lui ma che invece essa
si confermi e si rafforzi, è un bambino che vivrà la sua età adulta con
maggiore equilibrio e giusta maturità. Di fatto, ogni bambino, che è un uomo in
divenire, sa bene dentro di sé che dovrà attraversare una vita qui sulla terra
con una sua ben figurata direzione, la direzione che appartiene alla propria
individualità e sa che deve prepararsi per ben affrontare il proprio destino,
dunque sa anche che necessita di "maestri" che lo seguano durante il
suo "addestramento" alla vita; se egli ha fiducia nei suoi maestri e
li stima, ritenendoli all'altezza del compito, li seguirà con amore e si
sentirà confortato, se invece egli avverte negli adulti che gli sono vicini
tentennamenti, incoerenze, forme di
comportamento irresponsabile e soprattutto disinteresse nei
propri confronti, egli non vorrà passare il "Rubicone", perché pensa
che esso lo porterebbe laddove vedrebbe tutto il contrario di quanto invece
egli, disceso dai mondi spirituali, legittimamente si aspetta. Ecco perché
molti giovani non crescono e restano immaturi, spesso pericolosamente immaturi,
perché non hanno trovato buoni "traghettatori" e sono rimasti
sulla sponda del Rubicone, senza mai averlo potuto superare. Molti problemi, anche gravi, che si
verificano nell'età dell'adolescenza il più delle volte sono connessi con il
non superamento della crisi dei nove anni.
La verità è che siamo noi adulti che dobbiamo, educando noi stessi, essere pronti a fronteggiare in modo
sano le problematiche e le necessità di ogni età
dei bambini che ci vengono, per destino o per scelta, affidati dalla vita, e
che siamo noi cui spetta il delicato compito ma anche l'alto onore di aiutarlo
nelle diverse situazioni che egli deve attraversare per giungere alla maturità.
E' un compito non semplice, che richiede
pazienza, dedizione e conoscenza, ma anche fantasia e gioia.
In questo compito troviamo, ad ogni età
del bambino, buoni "collaboratori" nei diversi generi letterari e
sarebbe una follia non avvalersene. Negli scritti dell'antichità è contenuta
tanta di quella saggezza che potremmo esserne tutti "riscattati", che
potremmo tutti, leggendoli attentamente e lasciandocene compenetrare fin nel
nostro intimo, attraversare un'esperienza catartica.
Ma se ad ogni età del bambino diamo già
qualcosa di questa saggezza, e ogni volta quel poco che è idoneo alla fase di
crescita in cui egli si trova, egli stesso saprà come accumulare il suo
"tesoro personale", con il quale affrontare la sua vita. Egli,
infatti, spontaneamente prenderà da ogni racconto ciò che gli serve e con
naturale senso della scelta saprà quali contenuti dovrà elaborare in modo
autonomo lungo il proprio cammino. Un bambino si sentirà più attratto da un
elemento, un altro da uno diverso, dello stesso racconto, ma noi, che non
possiamo con esattezza prevedere cosa sia utile all'uno e cosa ad un altro,
dobbiamo fare la nostra scelta coraggiosa e raccontare, raccontare un po'di
tutto, della Bibbia come della mitologia nordica, della mitologia egiziana e di
quella greca... più sarà ampio il nostro narrare, più sarà facile per ciascun
bambino rintracciare e riconoscere nell'ampio arco della narrazione gli
elementi idonei ad essere suo alimento spirituale.
L'Antico Testamento a nove anni. Perché?
Perché ora che il bambino è nella fase in cui deve trasformare la sua fiducia
spontanea nell'adulto in fiducia cosciente, egli comincia a porsi molte domande
sul mondo e su se stesso. Ora egli non disubbidisce come lo faceva a tre anni,
in modo spontaneo, quando le sue disubbidienze erano solo i primi sentimenti
che egli aveva del suo Io, ma disubbidisce coscientemente, come chi appunto con
la disubbidienza vuole mettere alla prova l' "autorità". Egli ora
comincia a porsi delle domande sul mondo e su se stesso e deve ritrovare nella
complessità del mondo, popolato di molti esseri visibili ed invisibili, sia il
principio di "autorità" che quello di "identità":
l'autorità intesa non certo come autoritarismo ma come autorevolezza, come
punto di riferimento durante la via verso la Verità e non come soppressione di
libertà; identità in quanto ricerca della conferma di sé , della conferma della
propria esistenza di Io separato dagli altri e che con gli altri deve
rapportarsi secondo un equilibrio che sia confacente alla propria identità.
Così, durante l'inizio di questo
processo di crescita, che continua fino alle soglie degli undici anni,
configurandosi a dieci d'età in modo suo proprio, il racconto delle storie
dell'Antico Testamento si pone come il racconto ideale, poiché in esso, vera
grandiosa opera d'arte del passato, vi sono tutti gli elementi di cui abbisogna
l'animo del bambino, tutte le grandi, poderose immagini espresse con parole che
, anche se nei linguaggi moderni hanno perduto la forza magica originaria,
tuttavia mantengono la capacità evocativa di poderose rappresentazioni relative
ai grandi temi religiosi, quali la creazione, il peccato originale e il
distacco dal mondo divino, la legge data a Mosè e i comandamenti, le figure di
Angeli, Arcangeli, Profeti... e
di demoni... e l'eco di popoli antichi ... Vi sono, nelle varie storie bibliche,
esempi di virtù: l'ubbidienza, la pazienza, la fedeltà... Vi è la storia del
rapporto tra uomo e Dio, tra Io ed Io ..... e ogni storia che l'adulto sceglie
di raccontare può corrispondere a quello che egli sente come verità e comprende
come tale e nel contempo a quello che l'animo del bambino può accogliere come
balsamo per la problematicità del periodo che sta attraversando.
Il racconto va dato al bambino in modo
semplice e quanto mai coerente con il suo valore artistico, il contenuto non
deve essere né modificato né interpretato ma lo si deve lasciare agire sul
bambino attraverso la bellezza del linguaggio. Dopo il compimento della seconda
dentizione, del resto, egli riconosce spontaneamente come suo punto di
riferimento, abbiamo detto, non più il gesto, ma il linguaggio. Il linguaggio
dunque deve mantenersi il più possibile aderente a quello dell'opera scritta.
Solo nel caso in cui il bambino appartenga, per sua nascita, a una famiglia o a
un gruppo religioso che nell'Antico Testamento riconosce il proprio testo
sacro, allora chi gli impartisce l'insegnamento religioso può usare il racconto
a fini religiosi, ma l'adulto che usa il racconto solo come racconto, non deve
toccare l'argomento religioso, rispettando quella libertà dell'animo ancora in
crescita del bambino che gli dà il diritto di orientarsi poi secondo le sue
scelte. Ogni bambino nasce in un determinato ambito religioso e sono i
genitori che decidono per lui mentre egli è ancora un bambino e gli altri
adulti dovrebbero rispettare questa scelta, che per nascita appartiene al
bambino. Sarà lui poi, da grande a valutare le proprie scelte in ambito
religioso. Si potrà obiettare che l'educazione religiosa fornitagli dalla
famiglia finirà facilmente per condizionarlo, ma se il bambino riceverà, oltre
ad un'educazione religiosa, anche il nutrimento spirituale insito nei racconti
che dalla fiaba fino alla buona letteratura, passano pure per i testi
sacri, nessuno dovrebbe più dubitare della libertà della sua scelta futura, sia
riguardo all'eventualità che egli, divenuto adulto, senta di dover confermare
la propria appartenenza alla religione in cui è stato educato, sia nel caso
intenda mutare indirizzo e si ritrovi invece conforme ad altre vie spirituali.
Che ogni bambino abbia assoluto bisogno
di religiosità e di ritmo e di rito è invece una realtà cui, in parte, anche il
racconto corrisponde fornendogli forti elementi di religiosità,
indipendentemente dalla confessione di appartenenza o all'assenza di qualunque
confessione.
Guarderemo, procedendo nell'argomento in
questione, ad alcuni brani del racconto dall'Antico Testamento, mettendone in
evidenza alcune sfumature di significato che ben si prestano all'azione
pedagogica sul bambino di quest'età.
Intanto cominciamo
col dire che le storie della creazione del mondo e dell'uomo sono le prime
storie cosmogoniche di una lunga serie. Attraverso l'Antico Testamento prima ,
e poi via via attraverso il racconto di varie mitologie, il bambino verrà a
conoscenza di immagini poderose che, spesso solo in apparenza, sembrano
contraddirsi tra loro; ma questo fornisce un motivo di approfondimento assai
importante per l'educazione dell'uomo in divenire, il quale piano piano
imparerà da una parte a non restare chiuso in definizioni, dall'altra a
sviluppare in sé una delle qualità più importanti che un uomo dovrebbe poter e
saper sviluppare: la capacità di separare l'essenziale dal marginale, dall'accessorio,
l'incorruttibile dal corruttibile, l'essenza dall'apparenza.
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“Ma come vive ora il bambino in questo
passaggio? Nel suo sguardo c’è qualcosa di triste, l’andatura diventa più
pesante, il bambino è più sensibile: egli si accorge che l’ambiente,prima a lui
così noto, gli è diventato estraneo. Di tanto in tanto desidera isolarsi. Gli
sembra strano di essere improvvisamente separato dal mondo: che padre, madre,
amici stiano al di fuori della sua cerchia ristretta.
Ha nostalgia del passato, ha desiderio
di essere capito e amato. Ma qualcosa di enigmatico si è insinuato in lui e
glielo impedisce.
In questa solitudine si muovono nel
bambino i sentimenti più delicati, e niente dovrebbe disturbarlo, né curiosità,
né frenesia. In questa solitudine trova se stesso, sente di essere portatore di
un io e che egli, partendo da questo io, percorrerà il cammino della sua vita.
E’ molto importante il tipo di atmosfera
con cui gli adulti accompagnano il bambino attraverso questa difficile fase
della vita. Un ambiente pauroso, la passività moderna o la superficialità
dilagante nelle nostre metropoli rendono oltremodo difficile questo processo.
Se invece l’ambiente è pieno di allegria e il bambino può vedere come gli
adulti tengano testa a prove del destino, allora si accende la scintilla
dell’affermazione dell’io. Tali circostanze possono essere un influsso
sull’intera vita futura. Qui si decide, spesso, se il bambino svilupperà una
personalità dall’io forte o debole.”
Hermann Koepke, “Il nono anno di vita. La sua importanza
nello sviluppo del bambino. Associazione Amici della Scuola Steineriana 1995 pag: 59
In questo libro sono contenuti vari
fatti esemplari di comportamenti di bambini di questa età: l’autore, in qualità
di maestro incontra i genitori, che gli manifestano dubbi e perplessità e gli
raccontano i mutamenti comportamentali del bambino e ai quali egli dà di volta
in volta consigli e indicazioni. Un libro molto interessante e ricco.
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